La fotografia è la narrazione di due storie: quella di chi scatta e quella di chi guarda. Una stessa immagine può evocare racconti diversi, perché forme, colori, soggetti e oggetti suscitano nel nostro io più profondo esperienze emotive differenti.
A partire da questo principio, nel nostro Istituto abbiamo dedicato una sezione specifica allo studio dell’immagine fotografica e ai suoi effetti nel campo della psicoterapia, oltre che della psicologia. In questo contesto, la fotografia diventa uno strumento di conoscenza intima del paziente, che può cominciare a esplorare se stesso anche solo attraverso l’osservazione di una singola immagine.
Le fotografie possono essere scattate dal paziente stesso, come nel caso del progetto “l’album delle emozioni”; possono appartenere al suo archivio familiare, oppure essere immagini scelte liberamente da altri o proposte direttamente dal terapeuta. Ogni modalità ha una funzione terapeutica diversa, ma tutte si basano su ipotesi di lavoro e modelli teorici solidi.
Il principio si fonda su un concetto noto in psicologia come “proiettivo” fondato sul principio “situazione - stimolo”: l’immagine fotografica attiva infatti una “proiezione” verso il mondo interno, che può così emergere e diventare materiale prezioso da elaborare nel percorso terapeutico.
La fotografia può essere letta anche come espressione manifesta di un pensiero, imitativo o costruttivo, in cui la composizione visiva richiama altre immagini, spesso legate alla memoria individuale o collettiva. Il fotografo cerca nella realtà esterna un riflesso del proprio mondo interno: in questo senso, si mette alla ricerca di un corrispondente tra il fuori e il dentro. Quando la fotografia riesce a evocare figure archetipiche o memorie condivise, il suo potere comunicativo si amplifica, diventando ponte tra soggettività e universalità.
Colori e forme giocano un ruolo chiave. Esiste un linguaggio visivo-emotivo condiviso che attraversa l’esperienza umana e non solo umana, in modo profondo; si pensi per esempio alla vespa o al serpente corallo che manifestano la loro pericolosità attraverso i loro anelli gialli e neri, così come un’area radioattiva è delimitata con un cartello nero/giallo… così come il rosso, per esempio, evoca passioni, dinamismo, sessualità; il blu trasmette calma, introspezione, amore incondizionato.
Ogni colore, a sua volta, è associato a forme coerenti con il suo significato emotivo: il blu alla sfera, il giallo al cerchio, il verde al quadrato e così via, secondo gli studi di Max Luscher (psicologo svizzero). Quanto più un’immagine si avvicina a questa coerenza, tanto più riesce a risvegliare nel soggetto un linguaggio emotivo comune, profondo, universale.
L’efficacia terapeutica si ha perché la fotografia non si limita al senso della vista. Un’immagine attiva infatti anche sensazioni uditive, olfattive, tattili, cinestetiche, sollecitando numerose funzioni psichiche: dalla sensazione al desiderio, dal sentimento al pensiero, dall’istinto all’azione.
La fotografia diventa così evocatrice e creatrice, stimolando ricordi, emozioni e immagini interne. Si configura come uno spazio di confronto tra mondo interno e realtà esterna, capace di riequilibrare tensioni, stimolare risorse bloccate o sviluppare potenzialità sopite, come accade anche in ambito educativo e pedagogico.
Quando ci interroghiamo su come l’immagine fotografica agisca a livello terapeutico, spesso pensiamo al canale visivo come dominante. Ma la neurofisiologia ci invita ad andare oltre: nessuna immagine è mai solo visiva; si pensi all’immagine di una rosa, ma anche all’immagine del suo profumo o all’immagine del sapore del nostro frutto preferito, dolce e succoso, o all’immagine del suono del vento nel bosco o nella scogliera… all’immagine del sapore della salsedine sulle labbra e così via…
L’effetto della fotografia è tanto più profondo quanto più riesce ad attivare tutti i sensi e a far emergere esperienze ancestrali o personali. Così come Michelangelo affermava che la pittura è tanto più bella quanto più si avvicina alla scultura, così possiamo affermare che la fotografia è tanto più efficace quanto più riesce a farci “vivere” l’esperienza che rappresenta in maniera multisensoriale.
Il fotografo, o anche il paziente che osserva, “cattura” l’immagine confrontando continuamente il proprio disegno interno con la realtà esterna. Questo orientamento si inserisce in una più ampia riflessione neuroscientifica, secondo cui la mente si fonda prevalentemente su processi immaginativi e molto meno sulla narrazione verbale.
È stato dimostrato che un’immagine ha un impatto più forte di una descrizione verbale dello stesso oggetto e lo stesso oggetto è vissuto più intensamente se descritto immaginativamente. Così, l’immagine fotografica ci permette di rivivere il nostro passato in modo più integrato, più completo. In certe condizioni terapeutiche, non solo possiamo ricordare un’esperienza, ma addirittura riviverla, come se fosse presente, attiva, attuale. Non si tratta di una semplice memoria, ma di una vera riattivazione sensoriale ed emotiva.
È questo il fenomeno osservato da Penfield, neurofisiologo che ha dimostrato come il nostro cervello sia capace di immagazzinare ogni esperienza in modo dettagliato, come un archivio che conserva immagini, parole, suoni, emozioni. Un vero e proprio hard disk biologico; la fotografia aiuta questo processo, per questo è un valido strumento terapeutico.
Ma il lavoro con le immagini non si limita alla loro dimensione eidetica, ovvero alla capacità di riprodurre fedelmente nella mente un’immagine visiva, uditiva, olfattiva, tattile. Questa si affianca a una dimensione più profonda, quella esistenziale: così, il significato attribuito all’immagine va oltre la percezione fisiologica e attinge alle radici del nostro essere valoriale: dell’Etos, Pathos, Eros, ciò che mi offre il mondo, ciò che io offro al mondo, come affronto il mondo.
In ambito terapeutico, esistono diverse tecniche consolidate che utilizzano la fotografia. La “Photo-Therapy”, per esempio, lavora con immagini esistenti, come album familiari, selfie, diari fotografici. Lo scopo è esplorare vissuti, traumi, relazioni, stimolare la consapevolezza di sé.
Nella “Therapeutic Photography”, invece, il paziente diventa autore: scatta le proprie fotografie come parte attiva del percorso terapeutico. Questa modalità si è rivelata particolarmente efficace con adolescenti, in progetti di empowerment e resilienza, e in contesti di marginalità o fragilità sociale.
Un’altra metodologia molto utilizzata è il “Photolangage”, nata in Francia. Qui le immagini vengono selezionate dal terapeuta e proposte in setting di gruppo. Ogni partecipante sceglie una foto che rappresenta un pensiero, un sentimento o un valore e la condivide spiegando il motivo della scelta. Questo favorisce ascolto empatico, riflessione e risonanza emotiva tra i partecipanti.
Nel nostro Istituto, stiamo invece sperimentando con successo il progetto “l’album delle emozioni e dei valori”: si tratta di offrire al paziente la possibilità di allenarsi, ogni giorno, a riconoscere un momento positivo, significativo o di valore, fotografarlo, stamparlo e conservarlo. L’intento è quello di costruire un album di momenti positivi, che andranno ad ampliare la prospettiva esistenziale del soggetto.
In conclusione, la fotografia in psicoterapia non è semplicemente un'immagine da osservare, ma un varco attraverso cui entrare in contatto con sé stessi, un mezzo potente per evocare, riconoscere, trasformare. Che sia scattata, scelta o solo guardata, l’immagine fotografica diventa sentimento, emozione, valore. Ed è proprio in questo passaggio – dall’esterno all’interno, dall’occhio al cuore – che si osserva la sua straordinaria forza terapeutica. In un tempo come il nostro, dominato dall’eccesso di immagini, forse la sfida più autentica è proprio questa: osservare l’essenziale e non più guardare per imparare ad ascoltarci dentro attraverso l’invisibile.
Questo intervento è stato presentato l'8 luglio 2025 nell'ambito del Festival OFF des Rencontres d'Arles.